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Di che più si cura la passione dei sensi eccitata dal vino? Non sa più distinguere l'inguine dalla bocca, colei che nel colmo della notte morde grandi ostriche, quando spumeggiano i profumi profusi nel puro Falerno, quando si tracanna dalle conchiglie e il soffitto ondeggia nell'ebbrezza e sulla mensa paiono doppie le lucerne. Dubita ora della smorfia con cui Tullia assorbe l'aria, o di quel che dice Maura malfamata all'altra Maura, sua sorella di latte, quando passano davanti all'altare dell'antica Pudicizia. Di notte proprio qui che fan fermare le loro lettighe, e smaniose d'orinare, inondano la faccia della dea coi loro lunghi zampilli, e si cavalcano a vicenda, e s'agitano l'una addosso all'altra sotto il lume della luna. Poi ritornano a casa: e tu, al mattino, quando ti rechi a visitare gli amici potenti, calpesti l'urina di tua moglie!
Chi non conosce i misteri della Dea Bona? Il flauto eccita i lombi: stravolte dal suono del flauto e dal vino, le donne agitano i capelli ed ululano, questi menadi di Priapo! Che frenesia d'amplesso allora nelle loro menti, quali grida nella danza libidinosa, che torrente di vecchio vino lungo le loro madide gambe!
Saufeia, messa come posta una corona, sfida le ragazze del lupanare e vince la gara della coscia pendula; ma ella stessa poi trova adorabile Medullina per come ondeggia voluttuosamente. La palma è contesa tra le due dame; tanta abilità pareggia i natali. Nulla si fa qui per giuoco, ma tutto è vero, così vero che infiammerebbe di libidine Priamo, ormai gelato dagli anni, o addirittura l'ernia di Nestore [i due vecchioni dell'Iliade, il troiano e il greco]. Allora la voglia non soffre più indugio, allora la femmina si mostra com'è, e da tutte le parti insieme s'alza il grido che rimbomba sotto le volte: - Ora è lecito, fate entrare gli uomini! Se l'amante è a letto che dorme, gli fa dire di buttarsi addosso un mantello e venire immediatamente; se non c'è, si ricorre agli schiavi; se manca la speranza di trovarne, si prende a nolo l'acquaiolo; se intanto che lo si cerca mancano uomini, ella non ci pensa due volte a sottomettere le natiche a un somaro!
trad. in prosa di Ettore Barelli in: Giovenale, Satire, Intr. Luca Canali, Rizzoli, Milano, 1980, p. 129

La satira antifemminista è un vero e proprio genere letterario che ha, nel poeta latino Decimo Giunio Giovenale - che scrisse cinque raccolte di versi in età avanzata, al tempo di Traiano e di Adriano (inizi del II sec. d. C.) - uno degli esempi più illustri e, per certi aspetti, un modello tuttora insuperato.



da OLIPROJECT

La sesta Satira di Decimo Giunio Giovenale, nota anche come Satira contro le donne, è un lungo testo - il più lungo di tutta la sua produzione - di quasi settecento esametri in cui il poeta, per dissuadere l’amico Postumo dalle nozze, si scaglia contro il genere femminile, e più precisamente contro le matronae romane 1. Grazie ad alcuni indizi contenuti nel testo, è possibile datare l’opera a un periodo fra il 100 e il 127 d.C.
La satira prende le mosse dal ricordo e dall’idealizzazione di un’antica età dell’oro in cui ancora viveva sulla Terra la Pudicitia, dea femminile preposta alla fedeltà coniugale, che rendeva le donne ancora virtuose. Con l’evoluzione del genere umano, però, tanto la Pudicitia quanto Astrea, dea della giustizia, lasciarono il mondo e da quel momento non è più esistita tra gli uomini (e soprattutto tra le donne) la fedeltà matrimoniale. Giovenale invita allora provocatoriamente l’amico a scegliere per sé una strada migliore del matrimonio: suicidarsi o, altrimenti, andare con un ragazzino (queste alternative al matrimonio sono descritte subito ai vv. 27-37). Inizia allora una serie di “bozzetti” in climax che descrivono i più svariati tipi di matrone romane che si abbandonano alla lussuria e all’adulterio: si tratta di donne nobili e famose, che tradiscono il marito con attori e gladiatori e sono capaci di seguire i loro amanti fino in capo al mondo, abbandonando casa e figli, o persino di farsi prostitute sotto falso nome pur di soddisfare la propria lussuria; tra queste si trova anche Messalina, la moglie dell’imperatore Claudio (vv. 114-132). L’infedeltà è il loro difetto maggiore, ma non l’unico: sono anche amanti del lusso, sperperano denaro, eccedono nel trucco, parlano in greco per darsi un tono. Giovenale mette quindi in allerta Postumo, e con lui tutti gli uomini che intendano sposarsi, sulle conseguenze del matrimonio (vv. 209-217): nessuna libertà sarà più concessa, né di decidere come tagliarsi la barba né di scegliere gli amici , perché tutta la vita dell’uomo sarà condizionata dai capricci della futura moglie. Seguono poi alcune descrizioni ironiche di donne che per emanciparsi scelgono di fare le atlete o le gladiatrici.
A questo punto, dal v. 286, l’autore si interroga sulle cause che hanno portato a una tale degenerazione morale e, ricordando i tempi lontani dell’epoca annibalica in cui le matrone erano ancora virtuose, istituisce un nesso tra la decadenza etica dell’età contemporanea e l’assenza della guerra e della povertà, che sono capaci di soffocare sul nascere gli eccessi di lusso e lussuria 2. Le donne moderne, invece, sono ricche e senza preoccupazioni e - anche con la scusa di partecipare ai riti segreti in onore di Bona Dea - cedono agli eccessi: si ubriacano, si eccitano tra loro con spettacoli volgari e poi vanno a letto con i loro schiavi o con gli eunuchi. Inoltre, fingono di amare il canto per poi amare i cantori, si vantano di conoscere la poesia e la grammatica, si truccano con esagerazione, fanno frustare gli schiavi per capriccio, si affidano irrazionalmente a indovini e ciarlatani di ogni tipo. Tutto questo accomuna le donne nobili alle donne di condizione modesta. Tuttavia, mentre le prime accettano ancora la loro condizione di puerpere, perché comunque non potrebbero permettersi sostanze abortive o le prestazioni di una mammana, le matrone rifiutano di avere figli e praticano frequenti aborti; e in parte è un bene, dice Giovenale, perché altrimenti darebbero alla luce molti figli illegittimi. Infine, però, se le cose non vanno per il verso giusto, le donne arrivano persino a uccidere i propri figli o i propri mariti, come fecero le mitiche Medea o Clitemnestra. Osserva però infine Giovenale che mentre le eroine tragiche agivano spinte dalla follia, le matrone romane uccidono per calcolo e per denaro (vv. 643-661).
Testo e traduzione di passi significativi

Invito a Postumo a non sposarsi (vv. 27-37)

  1. Cèrte sanùs eràs. Uxòrem, Pòstume, dùcis?
  2. Dìc qua Tisìphonè 4quibùs exàgitère colùbris.
  3. Fèrre potès dominàm salvìs tot rèstibus ùllam,
  4. cùm pateànt altaè calìgantèsque fenèstrae,
  5. cùm tibì vicinùm se praèbeat Aèmiliùs pons?
  6. Aùt, si de mùltis nùllus plàcet èxitus, ìllud
  7. nònne putàs meliùs, quod tè cum pùsio dòrmit,
  8. pùsio quì noctù non lìtigat, èxigit à te
  9. nùlla iacèns illìc munùscula, nèc queritùr quod
  10. èt laterì parcàs nec quàntum iùssit anhèles
  1. Di certo un tempo eri sano di mente: e prendi moglie, Postumo?
  2. Di’ da quale Tisìfone, da quali serpi sei tormentato.
  3. Puoi sopportare una donna pur con così tante corde disponibili,
  4. mentre sono spalancate delle finestre alte e che danno le vertigini
  5. e ti si offre il ponte Emilio vicino?
  6. Oppure, se fra le molti tipi di morte non te ne piace nessuna,
  7. forse non ritieni meglio dormire con un ragazzino,
  8. un ragazzino che di notte non vuole litigare, che non pretende da te,
  9. mentre è lì sdraiato, nessun regalino e che non si lamenta perché
  10. o risparmi fiato o non ansimi quanto ordina lui?
  
Ritratto di Messalina, da imperatrice a prostituta (vv. 114-132)
Quìd privàta domùs, quid fècerit Èppia 5cùras?
Rèspice rìvalès divorùm 6; Claùdius àudi
quaè tulerìt. Dormìre virùm cum sènserat ùxor
sùmere noctùrnos mèretrìx Augùsta cucùllosaùsa Palàtino et tègetèm praefèrre cubìli
lìnquebàt comitè ancìlla non àmplius ùna.
Sìc, nigrùm flavò crinèm abscòndente galèro,
ìntravìt calidùm veterì centòne lupànarèt cellàm vacuàm atque suàm; tunc nùda papìllispròstitit aùratis tìtulùm mentìta Lycìscae
òstendìtque tuum, gènerosè Britànnice 7, vèntrem.
Èxcepìt blandà intrantès atque aèra popòscitcòntinuèque iacèns cunctòrum absòrbuit ìctus.
Mòx, lenòne suàs iam dìmittènte puèllas,
trìstis abìt et, quòd potuìt tamen, ùltima cèllam
claùsit adhùc ardèns rigidaè tentìgine vùlvae,
èt lassàta virìs necdùm satiàta recèssit,
òbscurisquè genìs turpìs fumòque lucèrnae
foèda lupànarìs tulìt ad pùlvinàr odòrem.
Perché ti preoccupi di una casa privata, di cosa abbia fatto Eppia?
Guarda i rivali degli dei; ascolta Claudio
che cosa ha sopportato. Quando la moglie si accorgeva che il marito dormiva,
osando l’Augusta meretrice mettersi dei cappucci da nottee preferire al talamo del Palatino una stuoia,
lo abbandonava, con non più di una ancella come compagna.
Così, mentre una parrucca bionda nasconde i capelli neri,
entra nel caldo lupanare dalle tende vecchie
e nella stanzetta vuota, tutta per lei; allora nuda con i capezzolidorati si prostituisce inventando il nome di Licisca
e offre, o nobile Britannico, il tuo ventre.
Accoglie generosa chi entra e chiede il prezzoe di continuo, sdraiata, assorbe i colpi di tutti.
Poi, quando il lenone manda via le sue ragazze,
triste se ne va e, l’unica cosa che può fare, per ultima chiude
la stanza, ardendo ancora per l’eccitazione della sua vulva turgida,
e, spossata dagli uomini ma non sazia, se ne va,
con le guance scure e sporca per il fumo della lucerna
porta l’ignobile odore del lupanare nel talamo nuziale.

Fine della libertà per l’uomo (vv. 206-218)

Sì tibi sìmplicitàs uxòria, dèditus ùni
èst animùs, summìtte capùt cervìce paràta
fèrre iugùm: nullam ìnveniès quae pàrcat amànti.
Àrdeat ìpsa licèt, tormèntis gaùdet amàntis
èt spolìis; ìgitur lònge mìnus ùtilis ìlli
ùxor, quìsquis erìt bonus òptandùsque marìtus.
Nìl unquàm invìta donàbis coniùge, vèndes
hàc obstànte nihìl, nihil 8 haèc si nòlit emètur;
haèc dabit àffectùs: ille èxcludètur amìcus
iàm seniòr, cuiùs barbàm tua iànua vìdit.
Tèstandì cum sit lènonìbus àtque lanìstis 9
lìbertàs et iurìs idèm contìngat harènae,
nòn unùs tibi rìvalìs dictàbitur hères.
Se fa per te l’accondiscendenza verso la moglie e hai il cuore
per una sola donna, abbassa la testa, con il collo pronto
a sopportare il giogo: non ne troverai nessuna che risparmi chi l’ama.
Anche se anche lei è innamorata, gode dei tormenti  e delle privazioni di chi l’ama; dunque è ancora meno utile
una moglie a chiunque sia un marito perbene e desiderabile.
Non farai mai più un regalo se la moglie è in disaccordo, non venderai nulla
se lei si opporrà, nulla sarà comprato se non vuole;
questa stabilirà gli affetti: sarà escluso quell’amico
ormai anziano, di cui la tua porta ha visto la prima barba.
Mentre per lenoni e lanisti c’è libertà
di fare testamento e lo stesso diritto tocca ai gladiatori,
a te un solo erede, rivale, verrà imposto.

Confronto con le eroine del mito (vv. 643-661)

Crèdamùs tragicìs quicquìd de Còlchide tòrva 10
dìcitur èt Procnè 11; nil còntra cònor. Et ìllae
gràndia mònstra suìs audèbant tèmporibùs, sed
nòn proptèr nummòs. Minor àdmiràtio sùmmis
dèbetùr monstrìs, quotiès facit ìra nocèntemhùnc sexùm et rabiè iecur ìncendènte ferùntur
praècipitès, ut sàxa iugìs abrùpta, quibùs mons
sùbtrahitùr clivò que latùs pendènte recèdit.
Ìllam ego nòn tulerìm quae còmputat èt scelus ìngens
sàna facìt. Spectànt subeùntem fàta marìti
Àlcestìm 12 et, simìlis sì permùtatio dètur,
mòrte virì cupiànt animàm servàre catèllae.
Òccurrènt multaè tibi Bèlides 13 àtque
Eriphỳlae 14
mìlle, Clỳtaemestràm 15 nullùs non vìcus habèbit.
Hòc tantùm refèrt, quod Tỳndaris ìlla bipènnem
ìnsulsàm et fatuàm dextrà laevàque tenèbat;
àt nunc rès agitùr tenuì pulmòne rubètae 16,
sèd tamen èt ferrò, si praègustàrit Atrìdes 17
Pòntica tèr victì cautùs medicàmina 18 règis.
Crediamo ai tragici qualsiasi cosa venga detta sulla torva donnadella Colchide o su Procne; non ho nulla in contrario. Anche quelle
osarono grandi nefandezze ai loro tempi, ma nonper soldi. Uno stupore minore è dovuto alle grandi
nefandezze ogni volta che l’ira rende colpevolequesto sesso e che, quando la rabbia infiamma il fegato, diventano
pericolose, come sassi gettati dalle cime, ai quali è tolto
il monte e la fiancata cede per il ripido pendio:
io non potrei sopportare una donna che fa calcoli e commette
un grande crimine a mente sana. Guardano Alcesti che subentra
al destino del marito e, se fosse concesso un simile scambio,
desidererebbero salvare la vita di una cagnolina con la morte del marito.
Per te arriveranno molte Belidi ed Erifili
al mattino, nessun vicolo sarà libero da Clitemnestra.
Soltanto questo fa la differenza, che quella Tindaride teneva
l’ascia stolta e folle con la destra e la sinistra,
mentre ora il misfatto è compiuto con un piccolo polmone di rospo,
ma anche con un’arma, se l’Atride cauto ha preso in anticipo
l’antidoto del re del Ponto, tre volte vinto.



1 L’attacco di Giovenale non riguarda infatti tutte le donne, ma solo quelle sposate, che, proprio per il loro status di mogli, avrebbero l’obbligo della fedeltà sessuale, mentre tutte le altre - schiave, prostitute, liberte - a Roma potevano invece esercitare una certa libertà sessuale, senza andare né contro la legge né contro la morale. Detto questo, il fatto che Giovenale circoscriva il suo attacco alle matrone non significa affatto che la sua misoginia non coinvolga in realtà l’intero genere femminile, anzi: secondo Giovenale tutte le donne sono per natura infedeli e solo le matrone romane, per un certo periodo, erano riuscite a frenare la loro infedeltà grazie all’istituto del matrimonio; alla sua epoca, però, il matrimonio era entrato in crisi proprio per colpa delle matrone, alle quali sono quindi rivolte i suoi attacchi più duri.
2 Si tratta del noto tema del cosiddetto metus hostilis (ovvero “la paura del nemico”), teorizzato per esempio anche da Sallustio nell’archeologia del De Catiliane coniuratione.
3 I riti di Bona Dea, una divinità latina dietro cui è identificabile il mito della Grande Madre, si celebravano in un bosco sacro presso il colle Aventino nel mese di dicembre. Gli uomini ne erano tassativamente esclusi.
4 Tisiphone: Tisifone era una delle Erinni della mitologia antica, nota per aver ucciso l’amante Citerone, facendolo mordere da uno dei serpenti di cui era fatta la propria capigliatura.
5 Eppia: Eppia è la moglie di un senatore, di cui si parlava nei versi precedenti.
6 rivales divorum: ad essere definiti così sono gli imperatori.
7 Britannice: Britannico è il figlio di Messalina e Claudio; il ventre è definito “tuum” a significare “che ti ha generato”.
8 L’insistente anafora di nihil vuole sottolineare che all’uomo sposato non rimane più nessuna libertà.
9 lanistis: i lanistae erano gli addestratori dei gladiatori.
10 de Colchide torva: la donna della Colchide è Medea, celebre protagonista dell’omonima tragedia di Euripide, che ha ucciso i propri figli per vendicarsi del marito traditore.
11 Anche Procne, eroina del mito, ha ucciso il proprio figlio per punire il marito Tereo.
12 Alcesti, personaggio dell’omonima tragedia euripidea, aveva accettato di morire al posto del marito.
13 Belides: Le Belidi, o Danaidi, avevano ucciso i loro mariti per evitare che si avverasse un oracolo secondo il quale il loro padre sarebbe stato ucciso da un genero.
14 Eriphylae: Erifile indicò il nascondiglio del marito Anfiarao che non voleva andare in guerra: da lì venne prelevato e trovò la morte in battaglia.
15 Clytaemestram: Clitemnestra è la moglie di Agamennone, che al ritorno del marito da Troia lo uccise per poter continuare la sua relazione con Egisto. Più avanti è chiamata Tindaride, in
quanto figlia di Tindaro.
16 tenui pulmone rubetae: dal polmone del rospo si ricavava un veleno letale, che le donne potevano usare per uccidere i mariti.
17 L’Atride è Agamennone, che qui è usato in senso metonimico ad indicare tutti i mariti infelici.
18 Pontica [...] medicamina: il riferimento è a Mitridate VI del Ponto (132-63 a.C.), nemico dei Romani per circa trent’anni nelle tre guerre mitridatiche. Si dice che Mitridate, temendo di venire avvelenato, assumesse costantemente dosi di veleno, garantendosi così l’immunità.



Leggendo le satire si ha l'impressione che un che di avventuroso e di triste sia passato nell'esistenza del poeta: se anche non riusciamo a discernerlo fra le vaghe e infide notizie di quella antica brevissima Vita  d'ignota provenienza rimasta in alcuni manoscritti delle Satire. Secondo questo anonimo biografo, Giovenale, educato in casa di un ricco liberto, non si sa se padre o protettore, perseverò nell'arte di declamare fino alla media età piuttosto per inclinazione dell'animo che per prepararsi alla scuola o all'avvocatura. Dopo aver acconciamente composto una satira di pochi versi contro il pantomimo Paride, si volse tutto a questo genere letterario che gli procurò più volte grande successo nelle sale di recitazione. Più tardi quei verso egli inserì in una nuova composizione per colpire un borioso istrione favorito dell'imperatore: onde venuto in sospetto di ostilità politica fu bandito da Roma con il pretesto di una onorevole missione militare. Al sarcasmo dei verso il principe volle rispondere con la beffa crudele di un comando di coorte conferito nel basso Egitto al vecchio poeta il quale «intra brevissimum tempus angore et taedio periit».

Questa fine di Giovenale ottuagenario che esule in terra lontana muore in brevissimo tempo di affanno e di malinconia ha certamente del romanzesco. In quella anonima biografica manca ogni impronta di sicura informazione. Secondo una recente opinione l'esilio di Giovenale sarebbe una leggenda inventata verso il quarto secolo da qualche letterato o grammatico e conformata al carattere del poeta che nelle satire apparisce come un flagellatore dei potenti. Può essere; ma questa possibilità non impedisce di credere fermamente, che nell'esistenza di Giovenale siano state non soltanto oscure ma anche dolorose esperienze.

Troppo poco, comunque, per ipotizzare che la misoginia del poeta derivasse da sofferte e vicende personali.
Piuttosto, la Satira VI ci sembra contenere - oltre la cornice storico-culturale contingente, e la relativa critica al lusso e alle mollezze importati dall'Oriente - un grido di dolore per l'impossibilità di stabilire un rapporto armonioso fra uomo e donna; e, in ciò, riteniamo si possa istituire un parallelismo con alcune opere del grande drammaturgo e romanziere svedese August Strindberg, e particolarmente con il libro Autodifesa di un folle, del 1887-87, dedicato in gran parte alla rievocazione della infelice vicende matrimoniale dell'Autore con la bella attrice Siri von Essen (cfr. il nostro precedente articolo Quando la donna è il cattivo genio dell'uomo - e di se stessa, sempre sul sito di Arianna Editrice).
Che questa nostra interpretazione non sia una mera illazione, ci pare lo suggeriscano questi pochi  verso rivelatori (208-11):

   … Nullam invenies quae parcat amanti:
ardeat ipsa licet, tormentis gaudet amantis
et spoliis, igitur lomnge minus utilis illi
uxor, quisquis erit bonus optandusque maritus.

Traduzione di E. Barelli (Op. cit., p. 123):

Non troverai nessuna disposta a risparmiare chi l'ama;  anche se t'amerà, godrà di tormentarti e spogliarti. La moglie è tanto meno utile quanto più il marito le si mostrerà buono e desiderabile.

Si tratta di un'osservazione che potrà non piacere alle femministe, ma che a noi sembra non priva di un sottile acume psicologico: la donna, in linea di massima, gode di esercitare un potere sull'uomo, non solo quando ama, ma anche quando non ama: nel primo caso, tiranneggiando l'amante o il marito; nel secondo, tormentando il pretendente infelice, per il puro e semplice piacere di esercitare una forma di dominio e sentirsi padrona della situazione, nonché per avere una conferma della proprio irresistibile potere di seduzione.
Certo, vi sono anche degli uomini che manifestano una analoga attitudine: e sono, infatti, gli uomini effeminati, magari travestiti da dongiovanni: e quasi sempre il dongiovanni è un uomo effeminato; solo le donne, per una sorta di pena del contrappasso, non l'hanno ancora capito.
Abbiamo altrove sostenuto che la disarmonia nel rapporto fra i due sessi è una delle caratteristiche più spiccate della società moderna; e lo testimoniano, sul versante della letteratura, innumerevoli opere, da Madame Bovary di Flaubert ad Anna Karenina di Tolstoj, da Malombra di Fogazzaro a Thérese Raquin di Émile Zola.
Tuttavia, la società tardo-romana presenta notevoli analogie con la società contemporanea, specie per quel che riguarda il tramonto di un antico assetto culturale e la faticosa ricerca ed elaborazione di valori nuovi, capaci di sostituirlo (ne abbiamo recentemente parlato nel saggio Alla crisi generale espressa dal nichilismo occorre rispondere con nuovi paradigmi e nuove norme?, consultabile anch'esso sul sito di Arianna Editrice).
Di conseguenza, la disarmonia nel rapporto fra uomo e donna, di cui la misoginia è una indubbia espressione, sarebbe uno dei tratti comuni alla società moderna e alla società tardo-antica: l'una e l'altra caratterizzate da uno stato di disordine morale, verso cui la satira misoneista, lo sparare a zero su tutto ciò che è «nuovo», costituisce, da sempre, una delle reazioni più tipiche.

Leggere i classici, e meditare su di essi - lo sappiamo - è sempre un modo di educare lo spirito a valori che oltrepassano le contingenze della società e della storia.
Leggere e meditare un classico della tarda antichità, come Giovenale (sebbene il II secolo non sia considerato tale dagli storici relativamente all'Impero Romano, lo è, però, di certo, in rapporto al mondo antico nel suo complesso) presenta un ulteriore motivo di interesse: verificare quanto poco «moderni» siamo, in fondo, noi moderni, così orgogliosi del nostro supposto primato.
In realtà, non sono poi molte le cose che la modernità ha davvero inventato: non il gusto del lusso superfluo e dello spreco; non la devastazione ecologica per futili motivi (si pensi alle venationes che spopolavano di leoni il Nordafrica, solo per allestire sontuosi spettacoli circensi); e nemmeno - dulcis in fundo - l'incomprensione e l'estraniamento fra uomo e donna, con tutto il suo carico di delusione, amarezza, conflittualità familiare; per non parlare della ricerca di «soluzioni alternative» che sembrano, anch'esse, l'ultimo grido della moda, ma sono invece vecchie di millenni: prima fra tutte la pratica dell'omosessualità, tanto maschile che femminile.
Viene davvero da domandarsi: ma che cosa abbiamo, poi, di tanto moderno, noi moderni, a parte la boria provinciale di sentirci sempre i primi della classe?
Ai posteri l'ardua sentenza…

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