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La filosofia leopardiana è un
insieme di riflessioni sulla condizione umana, che vengono esposte in modo
frammentario nello Zibaldone e che
confluiscono nelle Operette Morali e
in molte poesie. Anche se manca la sistematicità dell’indagine, per L. le
“leggi” che vengono affermate nella sua ricerca del vero esistenziale dell’io e
il vero sociale dei molti devono avere un valore sia soggettivo che oggettivo
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Leopardi rifiuta (lettera a De Sinner, 1832) il collegamento tra pessimismo
e infelicità personale. Questa fu per lui stimolo conoscitivo, cioè gli rivelò
quanto possa la Natura nel determinare la condizione dell'uomo. L. si chiede: cos'è
la vita, a che serve, dove tende, cos'è la felicità, perché essa manca, o è
inferiore a quella voluta?
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Il pessimismo leopardiano va anche
inserito nella problematica storico-culturale del suo tempo e in parte con esso
spiegata: crisi ideologica dell'illuminismo, atmosfera chiusa e retriva della
Restaurazione, accentuazione di questi caratteri a Recanati, soffocamento di
ogni slancio vitale e di ogni aspirazione alla grandezza, impossibilità di una
vita indipendente, libera e creativa, come faceva sperare la società più
dinamica, borghese, nata dalle riforme napoleoniche e dalla fiammata
rivoluzionaria.
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Primo stadio del pessimismo: intorno
al 1817 Leopardi, che non ha ancora
vent’anno e non ha esperienza del mondo fuori di Recanati, ritiene di essere
uno delle poche persone infelici in un mondo in cui c'è la felicità, ma fuori
da Recanati ( Lettera al Giordani, del 1817). Punto di partenza sono la perdita
della fede, l’accettazione della teoria illuminista del Sensismo (felicità =
pienezza e ricchezza di sensazioni) e il passaggio al materialismo (tutto è
materia, non c'è Dio, una forza misteriosa governa il mondo e l'uomo).
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Tra il 1818 e il 1821 si leggono ancora poesie
nelle quali si riconoscono idee vagamente roussoniane, nelle quali gli antichi,
o gli ingenui si sentono "felici" perché ignari dei limiti della
condizione umana. La Natura assegna all’uomo una condizione realmente felice ma
gli lascia la capacità di nutrire sogni, fantasie, illusioni, forti sentimenti,
grandi ideali.
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Dal 1822 (L’ultimo canto di Saffo è del maggio 1822) L. affina la sua
riflessione: è la famosa teoria del pessimismo
cosmico: la causa dell’infelicità umana è nel rapporto tra il bisogno
dell’individuo di essere felice e le possibilità oggettiva di soddisfare questo
bisogno. Questa condizione non è solo “storica”, non è propria dell’uomo
moderno dominato dalla ragione e dal calcolo utilitaristico, ma è comune a
tutti (anche agli animali).
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L. elabora la teoria del piacere:
l’uomo aspira naturalmente al piacere ma il piacere desiderato è sempre
superiore a quello conseguito e conseguibile. Il desiderio è anzi esso stesso
illimitato e dunque destinato a non essere soddisfatto. Deluso dagli
insufficienti piaceri reali, l’uomo ne cerca di illusori, sperando di raggiungere
la felicità nel futuro oppure accontentandosi di raggiungerla
nell’immaginazione, specialmente nella poesia e nel ricordo.
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Queste riflessioni comportano una ridefinizione del pensiero riguardo alla Natura, che non è stata mai madre amorevole
ma è matrigna, responsabile
dell’infelicità dell’uomo. E’ infatti la
Natura che determina la tendenza al piacere e infonde negli uomini “l’amor
proprio” e un bisogno di felicità che non può essere soddisfatto. La vita umana
è un insieme di sofferenze, di delusioni e di noia con l’unico scopo di procedere
verso la morte ma la Natura è del tutto indifferente alle sorti dell’uomo e di
ogni altra creatura perché, nell’organizzazione universale, è orientata solo
alla perpetuazione dell’esistenza. Tuttavia
la Natura è anche la vita che palpita nelle cose, la bellezza dei campi e del
cielo, l'istinto d'amore che riscalda il cuore.
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Se l'esistenza è un “arcano” mistero, se l'uomo è destinato al dolore,
tuttavia non per questo deve dimenticare la sua grandezza, che non consiste, da
un punto di vista umanistico, illuministico, storicistico, nella capacità di
governare la storia, di raggiungere traguardi di benessere e di felicità
collettiva sempre più alti, ma consiste nell'accettarsi per quello che si è:
piccoli, fragili, ma dotati della
coscienza di possedere una mente che può concepire l'infinito, di un cuore
capace delle più grandi avventure sentimentali, di una immaginazione che fa
sognare comunque una vita più bella. Dunque c’è nell’uomo un contrasto, fortemente romantico,
tra le conclusioni della ragione e le insopprimibili esigenze del cuore.
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L. rivede anche il suo pensiero riguardo alla civiltà, rivalutando il razionalismo europeo che va dal
Rinascimento all’Illuminismo. Infatti la Ragione
ha smascherato le illusione e rivelato all’uomo la verità della propria
condizione sulla terra ma gli ha fatto recuperare la dignità della
consapevolezza.
D’altra parte, però, lo sviluppo della civiltà rischia di far aumentare
l’infelicità nelle società moderne, segnate da artificialità e inautenticità e
nelle quali si vede una lotta di tutti contro tutti alla ricerca
dell’affermazione individuale.
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Nel 1830 Leopardi a Firenze, frequenta
liberali e cattolici e polemizza con loro: essi credono nel progresso, credono
che con la politica, la tecnica, l'economia l'uomo possa raggiungere livelli di
vita più alti e perciò conquistare una nuova felicità. Leopardi ironizza e
replica che non si può dare la felicità alle masse se non la si dà ai singoli.
Ritorna però in lui l’esigenza di un
impegno civile, motivato da un
sentimento di pietà per il genere umano, e viene indicata la possibilità di
ricostruire una morale fondata sul sentimento della fraternità sociale: “bene è
ciò che giova, male è ciò che nuoce” alla collettività.
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Nel pensiero leopardiano trova spazio anche un progetto di civiltà. Sulla coscienza del vero deve fondarsi un
nuovo modo di vivere da parte degli uomini: essi, consapevoli del male comune e
del nemico comune, la Natura, devono allearsi per ridurre il più possibile il
dolore di tutti e accrescere la felicità consentita dal loro stato fisico-biologico,
lottando insieme contro i limiti naturali.
L'uomo non deve vilmente compensare con false speranze la sua miseria
reale, ma affrontare a testa alta il suo destino e la forza cieca e ostile
della Natura. Ciò significa riconoscere
che solo la fraternità, la solidarietà
possono dare all'uomo i mezzi per contrastare l'assalto quotidiano portatogli
dall’implacabile Natura (La Ginestra).
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