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Svelato davanti allo specchio. Colloqui Fiorentini 2020.1


Svelato davanti allo specchio
Dentro il cuore c'è uno specchio dove non si è mai guardato nessun uomo. Pavese finalmente, con la profondità dei suoi occhi da poeta, diventa conscio del suo conflitto interiore.
Lo specchio gli sussurrò: "La vita ti sorriderà se mi guardi sorridendo". Pavese scoppiò in una sonora risata. Lo stesso che pensava alla vita come una prigione per i suoi dolori. Quindi così rispose: "Gli specchi dovrebbero pensare più a lungo prima di riflettere". Pensò che quello specchio, suo fedele riflesso, stesse dicendo solo un mucchio di parole rumorose e meretrici. "Questo non posso essere io, questo non può essere il mio riflesso", pensò. I suoi pensieri erano così rumorosi che persino lo specchio riuscì a sentirli, allora gli rispose: "Stai ancora aspettando la persona che ti cambierà la vita, ma dammi un'occhiata". "Anche lo specchio migliore non riflette l'altro lato delle cose" lo attaccò subito Pavese. "Ma io sono diverso, sono il riflesso di te stesso". A queste parole Pavese si abbandonò completamente e decise di confidarsi.
Pavese: “Sono vecchio, sfinito, esausto. Non so più difendermi dal mio stesso dolore.”
Specchio: “ Ti aiuterò io.”
Pavese: “ Perché è successo a me?”
Specchio: “ Non abbiamo il diritto di chiederci quando o perché il dolore arriva… salvo che non ci poniamo la stessa domanda ogni volta che proviamo un senso di felicità.”
Pavese: “ Ma io non sono mai felice.”
Specchio: “ Allora mettiamola così: il dolore è il gran maestro degli uomini. Sotto il suo soffio si è sviluppata la tua anima.”
Pavese: “ Certo, tutti gli uomini sono bravi a dare consigli e conforto al dolore che non provano!"
Specchio: “ Ricorda: io sono te stesso!"
Pavese: “ Ma neanche io so più chi sono… forse non l'ho neanche mai saputo.”
Specchio: “ Io, cioè anche tu, in realtà noi… siamo sempre stati fatti di pensieri e stati concettuali che d'improvviso circondano la nostra mente, li approfondiamo, poi li depositiamo sulla pagina. La nostra diacronia è continuamente riportata a una superiore sincronia. Fondiamo una nostra struttura insita, di costruzione, messa a punto attraverso il tempo, di cui stati concettuali e pensieri sono la provvisoria manifestazione. In noi coesistono, però, anche la condizione di spirito e la vita; la disperazione che proviamo è concreta, ovvio che graverà per sempre sulla nostra vita."
Pavese: “ Ma noi siamo incapaci e rifiutiamo di costruire razionalmente quei pensieri turbinosi, nonché la lotta fra l'istinto vitale e quello di morte. Io sento che la mia ora si sta avvicinando sempre di più. Io voglio smettere di soffrire."
Specchio: “ Anch’io.”
Pavese: “ Sei consapevole che ciò non accadrà mai fino a quando esisterà l’amore?"
Specchio: “ Sì. L'umiliazione alla virilità e le sconfitte che essa offre stanno mutando in ossessione: un'ossessione di tutta la vita.”
Pavese: “ Sono troppo tediose perché siano ignorate. Capisci che forse esiste una donna giusta per noi ma che non riusciremo mai a raggiungerla. Ci produce solo frustrazione. Un diagramma in prevalente discesa. Quando si è registrato l'ultimo crollo del diagramma amoroso, mi resi conto che nonostante impennasse il mio, o meglio nostro, successo letterario, questo non sarebbe mai riuscito a compensare il crollo rappresentato dall'amore. Se ci gettassimo da un dirupo, incontreremo solo petali di rosa, se invece ci imbattessimo nell'amore, otterremo solo spine piantate dalla stessa donna nel nostro cuore.
Specchio: “ Dunque abbiamo bisogno di una donna, compagna, confidente, confortatrice, oltre che sessualmente affiatata, altrimenti il senso di solitudine ci affliggerà per tutta la vita. Tu vuoi rimanere solo?”
Pavese: “ Ovvio che no, ma non voglio neanche andare incontro ad altro dolore. Le donne sono capaci solo di far soffrire. Prima illudono, poi deludono, feriscono. È come quando da piccolo cadevi dall'altalena subito dopo aver raggiunto la massima velocità. Per questo non ha più senso vivere, perché prima o dopo di un momento di felicità ce ne sarà uno di profonda sofferenza che farà annerire tutta la bellezza di quegli attimi. Per forza andrà a prevalere il dolore, dunque la morte. Voglio finirla qui!”
Specchio: “ Bisogna essere coerenti con se stessi. Se vuoi vivere giusto e pietoso, smetti di vivere.”





Postille ai lavori di Cesare Pavese.
Tutto è iniziato da questo frammento:
“In un caffè
 Ho trovato me stesso.
 Riflesso nello specchio […]
 sto curvo […]
 Sono solo, ricurvo,
 e non soffro più nulla.”                                
(Cesare Pavese, prima di "Lavorare stanca", 30 aprile 1928)
Abbiamo deciso di analizzare sotto forma di dialoghi i pensieri che hanno spinto al suicidio una delle menti più brillanti della letteratura italiana del ‘900. Questo perché probabilmente il conflitto più grande che aveva, risiedeva in lui stesso. Abbiamo pensato che se magari Pavese avesse avuto la possibilità di essere del tutto sincero con sé prima di tutto, di svelarsi appunto davanti allo specchio, forse molte cose si sarebbero risolte e magari una parte del suo dolore avrebbe fatto marcia indietro, si sarebbe rimarginato. Ciò non ne avrebbe impedito il suicidio, ma di sicuro ne avrebbe ridotte la sofferenza e le pene. Anche perché l’intento del suicidio è stato portato avanti secondo un progetto, se non secondo un vero e proprio disegno. Pare ci autorizzi a pensarlo lo stesso Pavese: che pochi giorni prima del suicidio racchiuse il manoscritto nella cartelletta verde in cui usava conservarlo e gli premise un foglio di frontespizio a matita rossa e blu col titolo “Il mestiere di vivere”, preceduto dai termini cronologici 1935-1950 e seguito dal suo nome. L’indicazione della data finale ci porta sulla soglia della tragedia: Pavese, nello scriverla, aveva ormai deciso di annullare la propria esistenza. Il verbo vivere alludeva ormai al passato.
Riprendendo le parole della sua amica Natalia Ginzburg, “ Pavese aveva parlato per anni di uccidersi, ma nessuno gli aveva mai veramente creduto. Non aveva, in fondo, per uccidersi, alcun motivo reale. Ma compose assieme più motivi e ne calcolò la somma, con precisione fulminea, e ancora li compose insieme e ancora vide assentendo col suo sorriso maligno, che il risultato era l’identico e quindi esatto.”
Concordando con lei, ai nostri occhi è sembrato che le cause scatenanti di una decisione così atroce siano la fusione di tanti motivi concatenati come la delusione amorosa, la crisi ideologica e il senso di colpa d’ordine politico. D'altra parte a prevalere su tutte fu la solitudine, provocata dalla frustrazione in campo sentimentale: non è riuscito mai a trovare nessuno in grado di poter scavare fino in fondo nella sua anima turbolenta, tanto da comprenderlo, dunque scrisse così

"[...] Poi morire, morire,
con te.
Il giorno tetro
in cui dovrò solitario
morire (e verrà, senza scampo)
quel giorno piangerò
pensando che potevo
morire così nell’ebbrezza
di una passione ardente.
Ma per pietà d’amore
non l’ho voluto mai.
Per pietà del tuo povero amore
ho scelto, anima mia,
la via del più lungo dolore."
(Cesare Pavese, prima di "Lavorare Stanca", 12 dicembre 1929)

Ipotizziamo sia stato causato dalla delusione amorosa perché, sempre nel mestiere di vivere, lo stesso autore lascia un messaggio alle donne amate:
“Perché scrivere queste cose che lei leggerà e magari la decideranno a intervenire e a darti il giro?” (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 26 gennaio 1938)
La nostra idea è fondata anche sul fatto che l’ultima pagina di diario sembri essere dedicata al pensiero di Pavese, secondo il quale l’amata avrebbe posato gli occhi sulle sue ultime parole.
“ Cara, forse tu sei davvero la migliore – quella vera. Ma non ho più tempo di dirtelo, di fartelo sapere – e poi, se anche potessi, resta la prova, la prova, la prova, il fallimento.”
(Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 18 luglio 1950)

Che cosa sia passato per la mente di Pavese, tra l’ultima nota, del 18 Agosto, e il suicidio, della notte tra il 26 e il 27, nessuno può dirlo. La scrittura ha semplicemente preceduto e condizionato l’azione. In quel momento ci immaginiamo come i suoi sentimenti siano stati pietrificati, sospesi. Inevitabilmente si sarà trovato di fronte a quell’attimo d’incertezza o era irremovibile riguardo a ciò che stava facendo? Chi sa cosa gli sarà passato per la testa in quel momento, chi sa cosa provava? Sono domande che tutti almeno una volta ci saremo posti se abbiamo letto Pavese. È sicuramente impossibile dirlo, anche solo ipotizzarlo lontanamente, perché fino a quando non viviamo la stessa situazione, non potremo mai avvicinarci alle turbolente voci che risiedevano nella sua mente. Questo è ciò che vorremmo dire a quel Pavese sul punto si suicidarsi: "Noi ti capiamo, indipendentemente da tutto, non sappiamo cosa si prova e forse è meglio così, ma di sicuro ci saremo impegnate il più possibile, ascoltandoti davvero, e non solo sentendoti, affinché potessimo alleviare il gravoso onere che la vita aveva deciso di affidarti".
L’idea del suicidio è la costante di una vita intera in Pavese, connessa con l’amore, un’autodistruzione stimata eroica, messa in atto da chi è innamorato della vita, a dispetto di quanto si possa credere; distrugge se stesso per scoprire dentro di sé ogni difetto, ogni viltà, perciò ricerca dentro se stesso, s’inebria, gode di questi difetti e di queste viltà. Infatti nel suo ultimo diario, “Il mestiere di vivere”, evoca costantemente la morte e, se non lo fa, Pavese sembra essere del tutto consapevole che le sue memorie saranno poi proprietà di molti, dunque si astiene dall’intimo scavo rifugiandosi in uno stile innaturale. Il diario di Pavese si mostra come l’opera ultima dello scrittore, fino ad arrivare alla disfatta della vita e al trionfo della morte. L’autodistruzione avvicina Pavese al suicidio, si configura quindi come una manifestazione d’insofferenza nei confronti dell’esistenza umana, l’estremo gesto che necessita di coraggio. A questo concetto sull’autodistruzione si pone, in antitesi, quello dell’atto estremo come gesto dimostrativo:
“Perché non si cerca la morte volontaria, che sia affermazione di libera scelta, che esprima qualcosa? Invece di lasciarsi morire? […]
E verrà il giorno della morte naturale. E avremo perso la grande occasione di fare per una ragione l'atto più importante di una vita.”         
(Cesare Pavese, 30 novembre 1937)
Con questa esternazione, Pavese sembra esortare l’uomo a non attendere la morte naturale e a non lasciarsi sfuggire all’opportunità di decidere da solo della sua esistenza. Attraverso il suicidio l’uomo vuole dimostrare qualcosa, esprimere la sua insoddisfazione nei confronti dell’esistere; questa scontentezza cade però nel momento in cui egli si avvicina alla morte e comprende la grande importanza della vita, il forte attaccamento a essa.
È possibile morire dopo aver riconosciuto che il destino è fatale e immutabile, ma anche dopo aver proclamato il valore e l’autenticità delle proprie opere: Pavese, dopo aver scritto i libri che valgono a far comprendere come è il mondo, la storia, soprattutto la vita contro di cui si è battuto fin dalla giovinezza, decide di buttare tutto all’aria e lasciare ormai tutto quel materiale come prova della sua sofferenza e come monito per le generazioni a venire. Suicidio come gesto testimone di una crisi eterna e infinita, che fin da sempre e per sempre affliggerà l’identità umana. Suicidio come gesto esausto che ci costringe a immedesimarci nell’altro, ma che mai riusciremo a capire: non abbiamo vissuto i suoi stessi turbamenti. Suicidio come prova contro noi stesse, ben che esterne alla sua vita tormenta, ci viene richiesto uno sforzo immane: quello di isolarci da ogni tipo di giudizio e critica gratuita nei suoi confronti. Forse la cosa più difficile, non è stato comprenderne le ragioni, perché noi possiamo solo ipotizzare, non ne avremo mai la conferma, giacché l’unico che ha la facoltà di saperne le cause ora non c’è più; il vero sforzo è stato isolarci dalla nostra persona, condizione di ragazze che conducono una vita del tutto normale, anonima, una vita che noi accettiamo così com’è, per riconoscere che nel gesto del suicidio si cela davvero uno struggente coraggio. Cuore, in significato d'animo, d'ardire e bravura. Una persona dotata di coraggio è audace e temeraria, e non ha paura di affrontare le sfide difficili. Chiunque abbia coraggio mette in atto gesti impavidi e audaci. Avere coraggio significa agire quando gli altri hanno paura del pericolo, o semplicemente agire senza aver paura del fallimento. Riconosciamo dunque, nell’altra faccia della medaglia, come Pavese interpretasse il suicidio come questo gesto impavido che era necessario per svoltare la sua vita, o non vita. Fino al giorno della morte, nessuno può essere sicuro del proprio coraggio. Il coraggio non può essere contraffatto, è una virtù che sfugge all’ipocrisia: anche per questo Pavese è degno di lode. L’uccidersi, allora, significa non già la verifica del fallimento, ma, al contrario, la giusta risposta di resistenza, di valore e di esemplarità al destino nemico.
“Ai nostri tempi il suicidio è un modo di sparire, viene commesso timidamente, silenziosamente, schiacciatamente. Non è più un agire, è un patire."
(Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 24 Aprile 1936)

Pavese ci ha lasciato un patrimonio eterno di cui andare fieri e grati, grazie alla sua straordinaria profondità, ma è proprio quest’ultima che spinge una mente, qualunque mente dall’oblio, a cercare di più, a colmare di più, e più spesso invano, gli immensi crateri interiori. È perennemente insoddisfatto, sempre alla ricerca di altro, della novità e di nuove mete. Ogni traguardo è l’inizio per un’altra corsa, senza godersi il momento, gioire e osservare la strada percorsa con soddisfazione. Sempre proiettato al futuro, percorre un nuovo viaggio che porterà nuovamente altra insoddisfazione e così all’infinito. Nella società del Novecento, ma anche in quella attuale, è di primaria importanza soddisfare bisogni fondamentali, quelli fisiologici, di sicurezza e amore, la realizzazione dei sogni e il riconoscimento della società. Pavese aveva tutto ciò, tranne l'amore, con il quale ha avuto rapporti non del tutto pacifici dalla sua infanzia. Eppure era l'unica coda che cercava, e, solo una volta ottenuto, forse avrebbe deciso di accontentarsi. L’idea che si possa raggiungere qualsiasi cosa aumenta le sospensioni e l’illusione del facile accesso al vero e proprio appagamento. A rompere la magia, una società dove le certezze di oggi, non sono quelle di ieri, nemmeno di domani; dove tutto termina nel breve tempo per lasciare spazio al nuovo e al cambiamento. La precarietà è all’ordine del giorno. I bisogni di sicurezza e appartenenza svaniscono e sorgono paura e insoddisfazione costante. Il traguardo raggiunto sfugge rapidamente. La sua tendenza costante al perfezionismo che spinge a fare sempre di più, e meglio, ricercando l’eccellenza senza accettare i fallimenti, genera un autore perennemente insoddisfatto per cui, anche il lavoro migliore, non sarà mai abbastanza per le proprie aspettative, spesso non realistiche. I fallimenti, in campo amoroso soprattutto, causano senso di colpa, frustrazione e svalutazione, senza la capacità di vedere quanto fatto e la fatica messa in campo. Gli imprevisti sono attribuiti al sé e alla propria scarsa capacità di tenere tutto sotto controllo. La base più forte dell’insoddisfazione ha sede nella scarsa consapevolezza e accettazione di sé stesso: il divario tra io ideale-ciò che si desidera essere e cui si aspira-e l’io reale-ciò che si è veramente- è molto ampio e la ricerca di qualcosa più grande di sé e spesso poco definito genera insoddisfazione. La non accettazione di sé non permette di conoscere cosa rende felici e porta a percorrere viaggi di scarso valore, le cui mete lasciano un senso di vuoto e di mancanza. Quanto detto prima ha costituito un nuovo senso d’inadeguatezza e dolore per l'autore: Pavese scelse di volere tutto, e quando quel tutto arrivava, richiedeva un altro tutto. Così fino al giorno del suo suicidio. Possiamo dunque parlare di “Nostalgia del possibile”: una saudade non tanto di quello che si ha avuto, quanto piuttosto di quello che si sarebbe potuto avere.
Non dimenticandoci poi nemmeno di analizzare Pavese in sé. Questo poeta può essere descritto come un autore che non sta mai fermo, che non riesci a bloccare, a mettere dentro uno schema perché troverà sempre il modo di sfuggire. Per di più per presentarlo non bastano due parole. Già questo è un indizio importante, perché le cose più belle, più dure, più forti della vita, quelle che contano, non riesci a liquidarle con due parole. Si sa, le esperienze più importanti che si fanno nella vita come l’amore, il dolore, gli incontri decisivi, non sono cose che si possono descrivere e sistemare; non riesci a definirle. Vuol dire che sono esorbitanti, esagerate, così grandi rispetto alla schematizzazione che possiamo farne. Pavese è uno di quegli autori che hanno grandezza. Sapendo però che tutto ciò non vuol dire che i grandi autori pongono questioni che non sono riducibili in poche parole dal niente. Se si vuole parlare di grandi autori, se si vuole parlare di Pavese, non si può riuscire con facilità. Guardandolo negli occhi capiamo l’abisso che c’era in lui, un labirinto in cui egli stesso si era perso e da quel momento in poi è stato incapace farne fronte. Questa complessità e misteriosità che emerge in tutti i suoi scritti ci ha affascinato fin da subito.
“Il suicidio! È la forza di quelli che non hanno più forza, è la speranza di quelli che non credono più, è il sublime coraggio dei vinti! Già: in questa vita c’è almeno una porta che possiamo sempre aprire per passare dall’altra parte! La natura ha avuto un moto di pietà: non ci ha imprigionati." diceva Montesquieu. E noi questa frase di speranza, che offre almeno un piccolo barlume di valida motivazione per non far traboccare nella disperazione più totale, la dedichiamo a Pavese.

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