«Non distruggere il tuo Paese, la Tunisia ha bisogno di te», s’appella l’ultimo hashtag del ministero dell’Interno. «Non prendeteci in giro, non abbiamo niente da perdere», avverte la capa della nuova protesta, Henda Shennaui. Tunisia 2018: la Rivoluzione delle Notti s’accende al tramonto e incendia le città della miseria. Kasserine e Tebourba, la simbolica Sidi Bouzid del primo martire delle rivolte 2011, ma anche le periferie di Tunisi. Dove la prima delle primavere arabe non s’e’ mai sentita, dove la disoccupazione occupa le menti. E viene naturale svuotare i supermarket Carrefour, bloccare le strade, incendiare pneumatici, prendersi i lacrimogeni. Seppellire un manifestante morto, curare 60 poliziotti feriti, processare 600 arrestati, attaccare con le bombe la sinagoga di Djerba. Al quinto giorno nulla si placa e tutto rischia di peggiorare, nel venerdì della preghiera e nella prossima domenica, settimo anniversario della rivolta che cacciò Ben Ali, portò la democrazia e però lascio, anzi peggiorò la crisi economica.
Il governo disloca 2.100 soldati a presidiare 123 “strutture vitali”, banche e uffici postali, municipi e stazioni, ma non è col filo spinato che si riprende il filo d’un discorso interrotto: il nuovo movimento di protesta, nato contro la legge di bilancio imposta dal Fondo monetario internazionale, cresciuto per fermare le nuove tasse sull’ortofrutta e la benzina, è un’onda rivoluzionaria che si chiama Fesh Nestanaou (che cosa aspettiamo?) e non s’attende più nulla da una maggioranza di governo infarcita d’ex benalisti. «Vogliono farci passare per terroristi - dice Henda, la leader, che ha 34 ed è una blogger -, ma noi siamo solo contro la marginalizzazione, la cattiva gestione delle risorse. Chiediamo di rivedere l’Iva, le tasse, le spese sociali, di combattere la corruzione. Ci sono stati episodi di saccheggio, ma il messaggio è un altro: di questa classe politica, non ci fidiamo più. Non vediamo la luce in fondo al tunnel».
Gennaio è sempre il più feroce dei mesi, in Tunisia. Perché la legge di bilancio costringe a fare conti che non tornano: un debito che si mangia tre quarti del Pil, un tunisino su tre senza lavoro, un’economia basata sull’olio, sui datteri e sull’emigrazione, il turismo colato a picco per il terrorismo arrivato dalla Libia, un import alimentare che solo quest’anno è cresciuto del 22% e costringe a comprare all’estero tutto, dallo zucchero al latte. Il giovane premier Yousef Chahed, presentato un anno e mezzo fa come «il Renzi tunisino» e ormai logorato nei consensi, liquida le contestazioni come «atti vandalici» ben visti dalle organizzazioni criminali e fomentati dalla sinistra del Fronte popolare. «Ma le sue sono parole irresponsabili - ribatte Hamma Hammami,dall’opposizione -. Chahed è spaesato dal fallimento suo e della coalizione. Non era preparato a questa reazione popolare. In questo modo, si presta a coprire la corruzione». Chahed sembra ormai scaricato dal suo partito, I laici di Nidaa Tounes, e dal suo mentore, il vecchio presidente Beji Caid Essebsi. Anche i suoi alleati, gli islamisti di Ennahda e il potente sindacato Ugtt, sono in imbarazzo e litigano fra loro: questo ad accusare quelli d’essere dietro le rivolte, «non prendiamo lezioni da chi ha sostenuto i terroristi», i Fratelli musulmani a rinfacciare alla sinistra di volere il tanto peggio tanto meglio. «Una maggioranza senza visioni e senza idee - analizza il politologo ed è. Ministro Said Watani -, frutto di compromessi incrociati, scollegato dagli interessi dei cittadini». Il distacco, è la piaga tunisina: il Palazzo di qua, le periferie di là. In mezzo, un popolo che può sperare solo d’imbarcarsi sul Mediterraneo o di combattere per il jihad. «Nelle rivolte si sono infiltrati i terroristi», avverte il governo. Magari non è vero, ma potrebbe diventarlo.
11 gennaio 2018 (modifica il 11 gennaio 2018 | 20:51)
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